di Valentino Baldacci
Oggi il nome stesso di Birobidžan non dice niente alla quasi totalità delle persone e degli stessi ebrei. Eppure c’è stato un tempo nel quale questa regione, posta all’estremo limite della Russia asiatica, al confine con la Cina, è stata, per decenni, lo scenario di uno dei più insensati esperimenti del comunismo sovietico, la creazione di una regione autonoma ebraica che avrebbe dovuto costituire un’alternativa al sionismo che si stava diffondendo anche nella Russia staliniana.
La vicenda del Birobidžan è narrata in un libro di Masha Gessen appena pubblicato (Dove gli ebrei non ci sono, Giuntina, Firenze, 2021) a cui la stessa autrice ha voluto aggiungere quello che, più che un sottotitolo, è una sorta di sommario: “La storia triste e assurda del Birobidžan, la regione autonoma ebraica nella Russia di Stalin”.
Bisogna dire che la vicenda del Birobidžan appartiene alla storia del popolo ebraico perché ebrei ne furono i protagonisti, o meglio le vittime, ma appartiene ancor più alla storia del comunismo sovietico, alla sua volontà – che era la volontà di Stalin condivisa dal gruppo dirigente che con lui deteneva il potere – di riplasmare il destino dei popoli dall’alto, secondo un disegno ideologico al quale erano estranei coloro che ne dovevano essere i protagonisti.
Fu una delle caratteristiche dell’età di Stalin lo spostamento forzato di intere popolazioni, deportate in luoghi lontani dalle loro località di residenza. Quella pratica si affermò in particolare dopo la II guerra mondiale quando Stalin volle in tal modo punire quelle popolazioni che, a suo dire, avevano collaborato con i nazisti; ed era vero che in molte regioni dell’Unione Sovietica, dopo più di venti anni di regime comunista, i tedeschi furono in certi casi vissuti dalla popolazione locale più come liberatori che come invasori, anche se dovettero rendersi conto ben presto di quali erano le intenzioni dei nazisti nei loro confronti.
Ma il caso della deportazione degli ebrei russi nel Birobidžan risale a ben prima della II guerra mondiale. Era frutto delle teorie sulle nazionalità di Stalin che ebbe l’idea di risolvere il problema del diffuso antisemitismo presente nell’URSS creando una sorta di grande ghetto, posto all’estremo limite del territorio sovietico, nel quale, in prospettiva, avrebbero dovuto confluire tutti gli ebrei russi.
In realtà quell’esperimento di creazione artificiale di una regione autonoma ebraica fallì fin dall’inizio, perché, tra l’altro, entrava in contraddizione con un aspetto del regime staliniano, troppo spesso taciuto, il suo antisemitismo, che portò il dittatore a colpire le stesse persone che avevano creduto a quell’esperimento, prima all’epoca del grande terrore del 1937 e poi, con rinnovata e maggiore violenza, dopo la II guerra mondiale, quando la paranoia staliniana vedeva dappertutto traditori e spie.
Come si sa, gli ebrei furono tra le maggiori vittime di quella paranoia.
Con la morte di Stalin l’esperimento del Birobidžan perse ogni significato, anche se formalmente rimase in piedi ancora per alcuni decenni. La conclusione definitiva ci fu quando, durante l’agonia dell’Unione Sovietica, con la fine del divieto di espatriare, i non molti ebrei rimasti nel Birobidžan decisero di trasferirsi in Israele.”
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