di Federica DʹAuria
La civiltà delle terramare era una delle più avanzate nell’Europa continentale durante l’età del bronzo. Rappresentava infatti l’anello di congiunzione tra l’area alpina e l’Europa centro settentrionale ed ebbe un’importanza storica fondamentale anche come snodo attivo con la Grecia micenea e il vicino oriente. I terramaricoli riuscirono a conquistarsi questo ruolo centrale in area mediterranea grazie alla loro abilità nella gestione dell’acqua e nella messa a coltura di tutte le fasce territoriali e al commercio di risorse fondamentali, come il rame e l’ambra.
Eppure, dopo aver dominato la Pianura padana per quasi cinque secoli, verso l’inizio del 1200 a.C. questa civiltà collassò rapidamente, anche a causa di un impatto antropico incontrollato sull’ambiente naturale e dei cambiamenti climatici.
A raccontare questa storia è Michele Cupitò, professore di protostoria europea e protostoria dell’urbanizzazione in Italia settentrionale all’università di Padova, e direttore dal 2010 dello scavo nella terramara di Fondo Paviani, che rappresenta uno dei contesti più importanti per studiare le relazioni tra gli abitanti della Pianura padana sia con l’Europa centrale, sia con l’Egeo e il Mediterraneo orientale, e per ricostruire le dinamiche che portarono all’emergere dell’abitato protostorico di Frattesina, sul fiume Po.
Il professor Michele Cupitò racconta la storia della civiltà delle terramare. Montaggio di Barbara Paknazar
“La civiltà delle terramare è una illustre sconosciuta per quanto riguarda le fasi più antiche della storia dell’Europa, ma in realtà fu una delle più importanti dell’età del bronzo europeo”, racconta il professore. “Si trovava nella Pianura padana tra la Lombardia orientale, il Veneto occidentale e l’Emilia, in un territorio che comprendeva anche le fasce pedecollinari, pedemontane, prealpine, alpine e appenniniche nel periodo compreso tra il 1600 e il 1200 a.C.
La parola “terramara” ha molto a che fare con la terra, ma ben poco con il mare. Deriva infatti dalla distorsione del termine “terra marna”, con cui gli agronomi dell’Ottocento definivano le terre molto fertili ricavate da queste aree. Nella metà dell’Ottocento, momento di straordinario sviluppo dello studio della preistoria in Italia, gli archeologi scoprirono nella Pianura padana delle vestigia di abitati preistorici che venivano sfruttate come cave di terreno fertilizzante. Decisero di descriverle con il termine terramare riferendosi a quella “terra fortemente fertilizzata”, ovvero la terra marna, derivante da depositi antropici e quindi ricca di materiali organici, che caratterizzava la zona.
Questo termine, quindi, indica un insediamento dalle dimensioni molto variabili (si va dalle terramare di un ettaro fino a quelle più grandi che raggiungono i 20 ettari) con tre caratteristiche fondamentali e costanti: una forma subquadrangolare, un sistema di perimetrazione costituito da un argine, ovvero un terrapieno di terra armata, e circondato da un fossato collegato a un corso d’acqua.
Questi villaggi ospitavano delle case, che erano per lo più delle palafitte, quindi abitazioni sopraelevate e sostenute da pali, e anche delle infrastrutture come recinti per gli animali, granai e tutto ciò che serviva per la vita degli abitanti. A seconda delle differenze del territorio, pianure, colline e aree pedemontane accoglievano insediamenti diversi. In ogni caso i reperti di cultura materiale, come le ceramiche e i prodotti in metallo e in bronzo, sono molto omogenei in questo vastissimo territorio, e questa è la ragione per cui si parla di una civiltà”.
“La grande forza della civiltà terramaricola, che progressivamente occupò tutta la pianura e anche tutte le fasce pedemontane e pedecollinari, fu la sua capacità di gestione dell’acqua, che rappresentava, naturalmente, una risorsa fondamentale non solo per la sopravvivenza degli abitanti, ma anche per l’agricoltura e l’allevamento”, continua il professor Cupitò. “La Pianura padana, soprattutto quella a nord del Po, è un’area ricchissima d’acqua, mentre a sud di questo fiume i corsi d’acqua hanno carattere torrentizio e sono più legati alle oscillazioni climatiche e ai regimi di pioggia meteorica.
Nelle fasi più avanzate del suo processo di sviluppo i terramaricoli perfezionarono una tecnologia idraulica straordinariamente raffinata, con canalizzazioni e sistemi di irrigazione in grado di portare l’acqua dalle zone basse e umide a quelle dossive. Fu così che questa civiltà riuscì a colonizzare l’intera pianura.
Con il tempo, da una situazione in cui gli insediamenti occupavano in modo omogeneo il territorio e non c’erano grosse differenze dimensionali o di rango tra i diversi insediamenti, si passò progressivamente alla costruzione di sistemi territoriali complessi, fortemente gerarchizzati e con dei siti chiave che gestivano, da una posizione dominante, tutto il territorio”.
La civiltà delle terramare ebbe una grande importanza anche sul piano economico. Come racconta il professor Cupitò, “l’economia si fondava su un’agricoltura estensiva basata soprattutto sulla coltivazione di cereali come orzo, farro e frumento, e delle leguminose. Successivamente, i terramaricoli riuscirono anche a sviluppare la coltura di cereali poco presenti in Europa prima dell’età del bronzo, come il miglio.
L’allevamento naturalmente era praticato in modi diversi a seconda delle caratteristiche del territorio. Sulla base dei dati archeologici sappiamo che alcune zone erano dedicate prevalentemente all’allevamento dei bovini, mentre altre a quello dei caprovini, poiché questi animali hanno bisogno di risorse e territori diversi. I suini, invece, erano una fonte di sostentamento onnipresente nell’economia animale.
I terramaricoli, inoltre, svilupparono anche grandi capacità dal punto di vista delle produzioni artigianali. Erano esperti nella lavorazione di diverse materie prime, come l’osso, il palco di cervo e il bronzo e anche di risorse preziose come l’ambra, proveniente dal baltico, e i materiali vetrosi.
In 400 anni, gli insediamenti delle terramare divennero uno dei fari di civiltà dell’Europa dell’età del bronzo, sebbene la loro organizzazione fosse molto diversa (anche se non inferiore, in quanto a complessità) dai sistemi statali della Grecia micenea o del vicino oriente, aree con cui i terramaricoli avevano dei rapporti di scambi commerciali”.
Con l’inizio del XII a.C., proprio quando i terramaricoli sembravano aver raggiunto l’apice del loro splendore, videro la loro civiltà crollare nel giro di poche generazioni. Da un lato fu una sorta di autodistruzione, ma dall’altro questa fu facilitata da un cambiamento climatico consistente che investì l’Europa in quell’epoca.
“Tra la metà del XIV e l’inizio del XII secolo, la civiltà delle terramare rappresentava l’anello di congiunzione tra l’Europa centrale, quella settentrionale e l’area mediterranea, che erano mondi apparentemente molto lontani, ma dialoganti”, sottolinea il professor Cupitò.
“Le terramare si trovavano in quella che, dopo la pianura del Danubio, è la pianura più grande dell’Europa, e non solo per l’estensione del territorio, ma anche perché questo è attraversato da due fiumi chiave sia per l’antichità che per l’oggi: l’Adige e il Po. L’Adige collega il versante meridionale delle Alpi con l’area alpina dell’attuale Trentino, che era forse il più importante bacino minerario di rame di tutta l’Europa. Il Po, invece, è il fiume che attraversa in senso ovest-est tutto il nord Italia, consentendo anche i collegamenti tra l’area padana in senso proprio, quindi quella delle terramare, con l’Adriatico, mare chiuso e complesso che mette in comunicazione l’Egeo con il Mediterraneo.
Nella fase finale dell’età del bronzo recente, che va dalla fine del XIII all’inizio del XII a. C., c’era una provincia del mondo terramaricolo, ovvero quella della bassa pianura veronese, il cui centro fondamentale è il Fondo Paviani, che metteva in rapporto diretto i navigatori egei e levantini.
Questi ultimi, in un momento storico che corrisponde al collasso della civiltà micenea, arrivarono fino al delta del Po, e risalendo il fiume entrarono in contatto con i gruppi terramaricoli delle pianure veronesi. Il loro scopo non era tanto l’approvvigionamento del metallo, materiale di cui si rifornivano sull’isola di Cipro, bensì quello dell’ambra. Si tratta di una resina fossile che si trova soprattutto sulle coste del Mar Baltico e del Mare del Nord. È una materia prima inutile, ma di grande lusso.
Poiché la civiltà delle terramare controllava l’afflusso di queste materie prime fondamentali, aveva raggiunto il suo apice anche dal punto di vista della pressione insediativa. Tutta la pianura e le fasce collinari, pedemontane, pedeappenniniche e appenniniche erano state completamente occupate grazie agli avanzatissimi sistemi di gestione delle acque. La deforestazione aveva raggiunto un punto limite. L’abbattimento della copertura forestale per far spazio ai campi, ai pascoli e agli insediamenti aveva causato problemi di carattere geomorfologico, come il degrado dei suoli e il ruscellamento. I terreni venivano ipersfruttati anche dal punto di vista della produzione, poiché c’era un’enormità di gente da sfamare, e ciò aveva provocato un impoverimento dei suoli.
Tutto questo ha innescato una sorta di effetto domino che ha progressivamente reso il sistema delle terramare non più sostenibile.
A questo si è aggiunto anche un aspetto di carattere climatico non dipendente dall’impatto antropico, al contrario di ciò che invece accade oggi. Sulla base dei dati archeologici, archeobotanici e geomorfologici possiamo osservare che nella Pianura padana e nell’intera Europa, intorno al 1200 a.C. si verificò un’oscillazione climatica in senso arido piuttosto rapida, la quale determinò anche l’abbassamento delle falde acquifere.
Questa sorta di “tempesta perfetta”, in parte autoindotta, perché dovuta all’autodistruzione a cui i terramaricoli erano andati incontro inconsapevolmente dopo aver raggiunto il loro apice, e in parte eteroindotta, derivante da questa oscillazione arida, determinò l’impossibilità di portare avanti un sistema che aveva funzionato per centinaia di anni.
C’è da dire, comunque, che la risposta a questa crisi fu diversa tra l’area a nord del Po e quella a sud. Quest’ultima, quella dell’Emilia, fu completamente spopolata. Ci sono evidenze che confermano che gli ultimi gruppi terramaricoli migrarono da questi territori, in cui era diventato difficile vivere, verso l’Italia centro-meridionale.
Nelle zone a nord del Po, invece, vennero messe in campo delle strategie di resilienza: il territorio era solcato infatti da grandi fiumi di risorgiva che subivano meno gli effetti negativi della transizione climatica in senso arido. Per questo, il sistema delle terramare nord padane non collassò, ma attraverso un processo di iperselezione e iperconcentrazione del popolamento, diede vita a un nuovo sistema, che vide nel Po e nell’Adige i due assi fluviali fondamentali, composto però da pochi insediamenti, il più importante dei quali fu quello di Frattesina di Fratta Polesine, che ereditò dal sito di Fondo Paviani e dall’area delle valli veronesi quella vocazione a diventare centro di scambio internazionale”.
Viene da chiedersi, allora, cosa può (o forse dovrebbe) insegnarci oggi la storia di questa civiltà e del suo declino. Possiamo pensare che le vicende che interessarono gli esseri umani in fasi così antiche della storia non abbiano nulla a che vedere con noi. Eppure, come riflette Cupitò, le cose non stanno esattamente così.
“Ogni fase della storia dell’umanità è strettamente interconnessa con le seguenti e con le successive”, sostiene il professore. “Se ci chiediamo quale eredità possiamo dedurre dalle terramare, la prima riguarda la storia del paesaggio. Le terramare costituirono il primo vero impatto antropico sul paesaggio della pianura padana. Questi insediamenti, che una volta abbandonati si trasformarono in collinette artificiali, nell’età del ferro, in epoca romana e poi in quella medievale diventarono in un certo senso dei punti di attrazione per l’insediamento.
Le terramare, dunque, caratterizzarono il paesaggio padano fino all’Ottocento, come testimoniano alcune chiese ottocentesche costruite al di sopra di insediamenti terramaricoli, che divennero quindi una sorta di base geomorfologica che l’antropizzazione delle fasi successive non poteva non tenere in considerazione.
Naturalmente c’è un’altra eredità che possiamo trarre da questa storia oggi che stiamo vivendo una situazione molto simile a quella delle terramare, anche se non su scala locale, ma globale. La nostra società sta iperfruttando l’ambiente naturale, e la storia ci insegna che questo corrisponde a una sorta di suicidio delle civiltà.
Se non restiamo in equilibrio con il territorio, con le sue potenzialità produttive e le sue capacità ricostruttive, finiremo per ritrovarci con un territorio che non potrà mai più rispondere alle nostre esigenze.
Se non restiamo in equilibrio con il territorio, con le sue potenzialità produttive e le sue capacità ricostruttive, finiremo per ritrovarci con un territorio che non potrà mai più rispondere alle nostre esig
Per quanto riguarda l’aspetto climatico, infine, proprio come accadeva circa 3200 anni fa anche oggi ci troviamo in una fase di transizione climatica in senso arido, anche se in questo caso essa è indotta e accelerata dagli effetti delle attività umane.
In un certo senso, quindi, forse dovremmo dare torto a Cicerone quando scriveva “historia magistra vitae”, perché stiamo ripetendo costantemente i nostri errori.
Eppure, rileggere la storia delle terramare, che riguarda una parte fondamentale di quella della più antica Europa, può darci qualche indicazione nel momento in cui ci interroghiamo su quali siano i punti fondamentali dell’agenda ecologica ed economica dei prossimi dieci e venti anni. Lo studio delle civiltà sepolte, se debitamente ascoltato, potrebbe aiutare a mettere in campo degli importanti strumenti di salvaguardia della nostra vita e del nostro pianeta”.
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