“APPENA IO METTEVA LORO LE MANI SUL COLLO AVEA L’EREZIONE” – LA STORIA DI VINCENZO VERZENI, IL “VAMPIRO DI BERGAMO” – NATO NEL 1849, DIVENNE SERIAL KILLER GIA’ A 21 ANNI: AVEVA LA PASSIONE DI SAZIARSI DI CARNE UMANA – AL PROCESSO AMMISE: “HO UCCISO QUELLE DONNE E HO TENTATO DI STRANGOLARNE ALTRE, PERCHÉ PROVAVO IN QUELL’ATTO UN IMMENSO PIACERE. LE GRAFFIATURE CHE SI TROVARONO SULLE COSCE NON ERANO PRODOTTE COLLE UNGHIE MA CON I DENTI, PERCHÉ IO, DOPO STROZZATA LA MORSI E NE SUCCHIAI IL SANGUE CHE ERA COLATO, CON CUI GODEI MOLTISSIMO”
Gianluigi Nuzzi per “Specchio – la Stampa”
“Appena io metteva loro le mani sul collo avea l’erezione Spaccai la Motta con un rasoio e provai nel farlo un gran piacere succiai il sangue che era salato, con che godei moltissimo Poi asportai il polpaccio per poterlo continuare a gustare a casa e arrostirmelo”. Chissà se lo scrittore americano Thomas Harris si è ispirato a Vincenzo Verzeni per conquistare la paura del grande pubblico quando creò la mitologia di Hannibal Lecter, interpretato poi da un inarrivabile Anthony Hopkins.
Certo, Lecter è di celluloide e rappresenta un dotto psichiatra manipolatore, mentre Verzeni, nato l’11 aprile del 1849, era un contadino dabbene della Bergamasca, figlio di un padre anaffettivo e alcolista, nativo di Bottanuco e serial killer già all’età di 21 anni, conquistando il soprannome de “lo strangolatore di donne” o “il vampiro della Bergamasca”. Sia Lecter, sia Verzeni coltivano l’irresistibile passione del saziarsi con il corpo umano, tanto che l’ultimo, ancora oggi, rappresenta uno dei più fulgidi e rari casi di vampirismo in Italia.
E forse andrebbe ben scandagliato il passato di questo ragazzo che subiva umiliazioni, vessazioni e botte del padre senza reagire, per trovare uno spiraglio d’interpretazione alla perfida normalità del male, persino del peggiore, come quello che Verzeni rappresentava. Infatti a noi comuni cittadini un individuo che pratica e prova piacere nel cannibalismo è un folle da internare, ma all’epoca il giudice ritenne il contadino vampiro capace di intendere e volere.
Una pronuncia conforme al perito d’ufficio, il noto Cesare Lombroso, che pur sollecitava per “il divoratore di carne umana” una riduzione della responsabilità per evidente alterazione del quadro psichico. “Verzeni è affetto da necrofilomania o pazzia per atti mostruosi e sanguinari cinque o sei casi conosciuti esseri in cui non esiste quasi una linea di confine tra il delitto e la pazzia”.
Insomma, il fondatore dell’antropologia criminale leggeva nella psiche di questo assassino e nel suo agire una lucidità organizzativa, compromessa dall’incapacità di gestire un impulso omicida, sebbene consapevole dell’illeceità e della gravità del delitto. Uno squilibrato compulsivo ostaggio dei suoi istinti più bradi: il piacere erotico del togliere la vita non era arginabile.
E, in effetti, lo scempio era indescrivibile. In nove mesi, l’uomo aveva colpito due volte, strangolando una domestica di 14 anni e una casalinga di 28 anni. In entrambi i casi il tipo di approccio era stato banale: la vittima veniva individuata se percorreva da sola una strada di campagna, quindi avvicinata con un pretesto e, dopo un brevissimo e impacciato dialogo, aggredita e uccisa. Verzeni non torturava la predestinata, non forzava, sembra che nemmeno pretendesse prestazioni sessuali.
Il piacere si coagulava in due precisi momenti. Nel “mentre”, ovvero nell’attimo della privazione dell’altrui vita, quando giungeva all’orgasmo stringendo le mani al collo della vittima. E se questo non arrivava, la vittima finiva inevitabilmente strozzata. E poi in quelle dinamiche perverse di accanimento sul cadavere: eviscerazione, necrofagia, sventramento, depezzamento, asportazione degli organi genitali. Il serial killer prima di abbandonare il corpo, lasciando intorno parti di esso, firmava anche l’omicidio con una serie di spilloni, alcuni conficcati nelle membra, altri posti vicino, come se tutto avesse una sua ritualità, un ordine profondo, un’oscura magia – si direbbe – se non fossimo di fronte a uno dei più atroci assassini che il nostro Paese abbia mai patito.
L’escalation criminale si consuma tra il 1867 e il 1869, quando Verzeni firma sei aggressioni sessuali con tentato omicidio e un furto. Tra le prime azioni c’è di certo quella ai danni della cugina Marianna che, ignara, stava dormendo fino a quando Verzeni cerca di morderle il collo. La ragazza urla al punto da far scappare l’aggressore. La storia non finisce all’attenzione della magistratura perché nessuno presenta denuncia, preferendo ricomporre tra familiari. Invece, siamo nel 1869 quando Barbara Bravi, contadina, racconta di esser stata aggredita da un uomo fuggito davanti alla sua tenace resistenza.
Dopo qualche mese un episodio fotocopia con vittima Margherita Esposito. Anche lei resiste, si difende, graffia al volto il suo aggressore che verrà identificato nel Verzeni. Ma la giustizia non sembra intervenire né con rapidità, né con efficacia. Così, dopo poche altre settimane, alle guardie si presenta Angela Previtali: vuole denunciare Verzeni perché è stata rapita da lui e portata in una zona disabitata. La donna riesce però a convincere il suo aguzzino di lasciarla libera, riuscendo a salvarsi.
Poi, nel 1870, il salto di qualità e gli ultimi segnali d’allarme, rimasti sempre inascoltati. È il 7 dicembre, ovvero proprio alla vigilia del primo omicidio, quando Verzeni già è in preda a una compulsione predatoria. Prende di mira la cugina di secondo grado di 19 anni, che aggredisce sessualmente. Cerca di strangolarla per il suo piacere sessuale, ma per fortuna ha un attimo di esitazione: lei non se lo fa sfuggire, si divincola e si salva. Sotto choc, la donna non svelerà mai a nessuno quanto accaduto. Così Verzeni sarà pronto a colpire. L’indomani è il giorno dell’Immacolata, Verzeni in uno sterrato di campagna incontra Giovanna Motta, una ragazzina di appena 14 anni che si occupa di servire in una casa di benestanti della zona.
Sta tornando dai genitori a Suisio, dopo che il suo datore le ha lasciato la giornata libera. La giovane verrà ritrovata quattro giorni dopo completamente nuda, con la bocca colma di terra. Ma era soprattutto il corpo a lasciare esterrefatti e tormentare la vista: sezionato in più parti, eviscerato. E poi, a qualche metro di distanza, su un sasso dieci spilli disposti a cerchio. La firma dell’assassino.
Eppure, le macabre scoperte purtroppo non erano finite: sotto del frumento erano nascosti i vestiti, dall’interno di un albero sbucano i visceri, in una baracca spunta un polpaccio. Verzeni non si controlla più, gli episodi si fanno sempre più incalzanti. E così, il 10 aprile 1871, Maria Galli, altra contadina, lo segnala alla polizia perché Verzeni la infastidiva pesantemente, mentre il 26 agosto punta su Maria Previtali, l’afferra, strattona e spintona. Cerca di in ogni modo di morderla al collo, ma la donna riesce a fuggire. È il preludio.
Non sono passati nemmeno nove mesi dal primo omicidio e a fine agosto in un campo coltivato, poco distante, nuda viene ritrovava Elisabetta Pagnoncelli, 28 anni. Vicino ai piedi una corda che per diametro combacia con l’ecchimosi del segno lasciato sul collo. Anche qui l’assassino ha sventrato il corpo per conficcarvi tre spilli, lasciandone altri lì vicino. Per fortuna le precedenti aggressioni aiutano gli inquirenti che riescono a stringere il cerchio nel 1873 proprio su questo giovane contadino.
Lui all’inizio nega. Indica altre persone che meriterebbero certo l’attenzione delle indagini. Poi però confessa, anche nei dettagli, quanto compiuto, le pulsioni avute. E quando si arriva a processo, si dichiara colpevole. Certo non si pente, non mostra rimorsi, anzi implora i giudici di non lasciarlo uscire perché è ben consapevole che tornerebbe a colpire di nuovo, a uccidere altre donne. Il piacere nero è prevaricante, ha scavato nella sua coscienza fino a spegnerla per sempre.
Per capire come si può arrivare a tanto, come un individuo può precipitare nell’ultimo girone della violenza più brutale, si indagò sul contesto familiare del serial killer. La famiglia di Verzeni pativa un profondo disagio economico, era molto rigida, avara nelle relazioni e nelle comunicazioni. Il contadino – prossimo assassino – si ritrova un padre con tracce di pellagra, che picchiava il giovane senza che lui reagisse, una madre con crisi epilettiche, due zii cretini. Nell’infanzia il ragazzo è assai remissivo, tranquillo, sensibile se vengono maltrattati degli animali davanti ai suoi occhi.
È facile dedurre che potesse mancare quindi quell’affetto e di quel calore che proteggono un figlio nella crescita. Passati i 12 anni cambia in modo inaspettato. Sempre defilato, silenzioso, viene descritto sia come violento nell’uccidere polli e galline, traendo piacere erotico, sia come molto concentrato sulla propria sessualità e sull’autoerotismo. I suoi sentimenti maturano in modo disordinato con un’adolescenza irrequieta, rapporti sessuali anche con bambine, relazioni che si incendiano e spengono in pochi giorni.
Certo, non basta tutto ciò a spiegare, anzi non si contano i figli di genitori problematici che hanno avuto successo nella vita. Lo studio della psiche umana rimane la scienza ancora oggi più incerta, immaginiamoci a metà dell’800 cosa si poteva conoscere. Anche perché in questa storia il male non aveva confini: “Io ho veramente ucciso quelle donne – aveva concluso Verzeni la sua confessione a processo – e ho tentato di strangolare quelle altre, perché provavo in quell’atto un immenso piacere. Le graffiature che si trovarono sulle cosce non erano prodotte colle unghie ma con i denti, perché io, dopo strozzata la morsi e ne succhiai il sangue che era colato, con cui godei moltissimo”.
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