In un tempo non remoto un mostro abitava nella Pianura Padana. Si annidava nel lago Gerundo , che occupava il territorio lombardo dal Bergamasco fin quasi a Cremona e al Po. Probabilmente il Gerundo era un vero e proprio lago solo quando i fiumi esondavano: altrimenti, aveva perlopiù l’aspetto di un bacino paludoso. Venne a crearsi nei secoli compresi fra l’abbandono delle opere idrauliche di epoca romana e le bonifiche operate dai monaci nel Medio Evo.
Nel Gerundo c’era un drago: e non un drago qualsiasi. Il drago padano si chiamava Tarantasio, era enorme e temibile. Aveva corpo di serpente, sei zampe e una gran quantità di caratteristiche poco piacevoli, a cominciare dall’abitudine di rovesciare le imbarcazioni e di nutrirsi di carne umana: apprezzava soprattutto i bambini.
La leggenda relativa ai lutti che il drago Tarantasio causava e all’eroe che finalmente lo sconfisse presenta numerose varianti, anche se generalmente la vicenda si colloca nel XII-XIII secolo ed è spesso collegata alla bonifica del lago Gerundo. A togliere di mezzo Tarantasio, a seconda dei casi, fu il valore di Federico Barbarossa o quello di Uberto Visconti, il capostipite della casata il cui stemma è conseguentemente un serpentone che sta inghiottendo un bambino. Una versione chiama in causa il vescovo di Lodi, che invocò San Cristoforo ottenendo da lui il miracolo; un’altra ancora ha come sfondo tempi più antichi – il VI secolo, per la precisione – e narra che, per uccidere Tarantasio, il re longobardo Agilulfo si rivolse a San Colombano, il santo irlandese che con 12 compagni viaggiò fino all’Italia per evangelizzare e fondare monasteri.
La matassa di racconti comprende anche una spiegazione sull’origine di Tarantasio: nacque dal corpo in putrefazione di Ezzelino da Romano, genero di Federico Barbarossa e malvagio signore di Vicenza, Verona e Padova, che morì proprio in quella zona.
Su alcuni punti, in ogni caso, tutti sono d’accordo: il Tarantasio sputava fuoco dalla bocca ed aveva due corna sulla testa. Alcuni – non però tutti – gli attribuiscono anche le ali. In ogni caso, il suo alito era così fetido da provocare febbri e malanni. L’ultimo particolare può essere il punto di contatto con la realtà presente in molte leggende: la malaria delle zone acquitrinose, le malattie legate all’acqua stagnante e infetta.
Ma, altro che leggende: la gente un tempo non dubitava minimamente che Tarantasio fosse esistito davvero. Lo testimoniano varie “costole di drago” lunghe un paio di metri conservate ai margini dell’ormai bonificato lago Gerundo: sono appese nelle chiese di San Bassiano a Pizzighettone (Cremona) e di San Giorgio in Lemine ad Almenno San Salvatore (Bergamo), nonché nel santuario della Natività di Maria a Paladina (ancora Bergamo). Anche in alcune chiese di Lodi c’erano “ossa di drago” successivamente andate perdute.
La scienza ha stabilito che si tratta di ossa fossili di mammuth o di balena. Presumibilmente furono trovate per caso durante varie opere di scavo. A quel che se ne sa, le “costole di drago” non si trovano nelle chiese fin dai tempi in cui Uberto Visconti, o chi per lui, uccise Tarantasio. Quindi non vennero conservate in qualità di prova della recente morte del drago, ma piuttosto a causa della ferma convinzione che il drago fosse esistito.
Al giorno d’oggi, tutti i draghi sono spariti dalla circolazione e così pure i santi e gli eroi che su di essi hanno trionfato. A parte le “costole” nelle chiese, tutto ciò che resta di Tarantasio è il simbolo dell’ENI, che fu ricalcato sulle sue fattezze per il numero delle zampe e per l’abitudine di sputare fuoco. Ufficialmente però il logo raffigura un cane: chi mai stipulerebbe un contratto con un drago che causa malattie e mangia i bambini?
Maria Ferdinanda Piva
(fonte: ilgiornaledelpo.it)
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